Che la blockchain potesse servire da infrastruttura oltre il perimetro delle criptovalute è ipotesi discussa da tempo; che un’organizzazione come le Nazioni Unite arrivi a definirla “ultimate identity technology” dopo un esperimento concreto con i fondi pensione rappresenta invece un passaggio qualitativo. Nel progetto pilota, illustrato il 26 settembre, l’ONU ha testato l’utilizzo di un registro distribuito per gestire in modo sicuro i dati di identificazione e i diritti previdenziali di un gruppo di beneficiari, con l’obiettivo di verificarne la robustezza tecnica, la scalabilità e la resilienza contro frodi e duplicazioni.
Il risultato, almeno nella comunicazione ufficiale, è netto: la blockchain dimostra di poter garantire un’identità digitale sicura e immutabile, riducendo i rischi di duplicazione dei record, eliminando inefficienze burocratiche e semplificando i processi di verifica. Per un sistema previdenziale internazionale — spesso caratterizzato da frammentazione normativa, molteplicità di enti gestori e differenze nella protezione dei dati — l’adozione di una tecnologia condivisa e trasparente non appare più come un’opzione sperimentale, ma come un percorso che potrebbe ridisegnare le modalità stesse di accesso alle prestazioni.
Il significato di questa sperimentazione travalica il caso specifico dei fondi pensione. L’identità digitale è oggi il nodo centrale di ogni architettura socio-economica avanzata: dalla finanza alla sanità, dall’istruzione alla mobilità. L’ONU, scegliendo la blockchain come piattaforma di test, manda un segnale chiaro: la tecnologia non deve essere letta solo come meccanismo di validazione monetaria, ma come infrastruttura di fiducia capace di reggere carichi istituzionali complessi. Il concetto stesso di “ultimate identity tech” va inteso in questo senso: una tecnologia che, grazie alla combinazione di immutabilità, decentralizzazione e trasparenza crittografica, può costituire il layer comune per sistemi che finora hanno operato in modo disgiunto.
Ciò non significa che la traiettoria sia priva di rischi. Anzitutto, resta aperta la questione della governance: chi controlla i nodi? Quali enti hanno diritto di scrittura e validazione? Quali garanzie si offrono agli utenti finali sul rispetto delle normative in materia di privacy (dal GDPR europeo ad altri framework locali)? In secondo luogo, l’adozione di blockchain come strato identitario comporta un trade-off delicato: la trasparenza che assicura integrità dei dati può confliggere con l’esigenza di riservatezza, soprattutto in ambiti sensibili come pensioni e sanità.
Eppure, l’esperimento conferma che l’uso della blockchain per l’identità non è più confinato alla letteratura accademica o ai white paper delle startup. È un terreno su cui si stanno muovendo organizzazioni multilaterali, Stati e consorzi industriali.
In proposito si apre un confronto interessante con altre esperienze.
In India, il sistema Aadhaar ha già creato un database biometrico che copre oltre un miliardo di persone, fornendo un’identità digitale univoca per accedere a servizi pubblici e privati. Tuttavia, l’impostazione fortemente centralizzata ha sollevato critiche relative a privacy, esclusione e rischi di sorveglianza. La differenza con l’approccio blockchain, almeno nella teoria, è sostanziale: non un archivio unico controllato da un’autorità centrale, ma un registro distribuito in grado di garantire verificabilità senza concentrare eccessivo potere in un solo attore.
In Europa, l’Unione ha appena approvato il regolamento sull’eID e l’eID Wallet, che punta a creare una cornice comune per identità digitale e firme elettroniche. Il digital euro stesso, come abbiamo visto, è pensato per integrarsi con queste architetture. Tuttavia, l’eID europeo resta un progetto top-down, coordinato da governi nazionali e Commissione, e non prevede di per sé l’utilizzo di blockchain. L’esperimento ONU introduce quindi un’alternativa: che sia un registro distribuito a garantire interoperabilità, anziché un database pubblico coordinato da istituzioni centrali.
La World Bank e l’iniziativa ID4D (Identification for Development) hanno più volte sottolineato come l’identità digitale sia condizione necessaria per l’inclusione economica nei paesi in via di sviluppo. Qui la blockchain potrebbe risolvere uno dei problemi principali: la mancanza di fiducia in istituzioni fragili. Se la governance fosse affidata a consorzi internazionali o a strutture ibride, i cittadini potrebbero disporre di un’identità verificabile senza dover dipendere esclusivamente da stati con capacità amministrative ridotte.
Dal punto di vista geopolitico, l’adozione di blockchain come infrastruttura identitaria pone una domanda cruciale: chi controllerà il protocollo? Una blockchain sponsorizzata dalle Nazioni Unite sarebbe percepita come strumento di cooperazione multilaterale, ma potrebbe anche sollevare il sospetto di un nuovo livello di sorveglianza globale. Una blockchain governata da consorzi privati, al contrario, rischierebbe di riprodurre le dinamiche di concentrazione già viste nei big data. È probabile che emerga un modello ibrido, con nodi gestiti da Stati, agenzie ONU, banche multilaterali e forse grandi operatori tecnologici, ma la tensione tra apertura tecnologica e controllo politico rimarrà insoluta.
Le implicazioni economiche non sono meno rilevanti. Se la blockchain si afferma come infrastruttura identitaria, il settore finanziario potrebbe integrare verifiche KYC e AML direttamente nel layer tecnologico, riducendo i costi di compliance e accelerando i processi. Allo stesso modo, i fondi pensione potrebbero gestire i diritti dei beneficiari senza ricorrere a database frammentati, migliorando la portabilità dei contributi tra diversi paesi o sistemi. Ma questo richiede standard condivisi, interoperabilità e soprattutto fiducia politica: senza accordo tra Stati, nessuna infrastruttura tecnologica può reggere.
In definitiva, la sperimentazione ONU non dimostra soltanto che la blockchain funziona tecnicamente come registro di identità: mette in evidenza che il futuro dell’identità digitale sarà un terreno di conflitto politico, economico e sociale. La tecnologia fornisce una soluzione teoricamente elegante, capace di garantire integrità e verificabilità; ma la sua implementazione richiede di decidere chi scrive, chi valida, chi custodisce le chiavi di un patrimonio informativo che non è mai stato così strategico.
Se la blockchain diventerà davvero l’“ultimate identity technology” dipenderà più dalla capacità di costruire una governance inclusiva che dalla crittografia. L’esperimento con i fondi pensione ha mostrato la fattibilità tecnica; resta ora da verificare la sostenibilità istituzionale. È in questo spazio, tra entusiasmo tecnologico e prudenza politica, che si giocherà la partita decisiva: se la blockchain sarà ricordata come infrastruttura globale di fiducia o come l’ennesima promessa incompiuta di un ordine digitale mai veramente universale.