In data 19 maggio 2025, la società Strategy Inc. (ex MicroStrategy) è stata citata in giudizio in una class action intentata da un investitore privato: l’accusa, formalmente depositata da Anas Hamza presso la U.S. District Court for the District of Columbia, contesta alla società guidata da Michael Saylor di aver comunicato in modo fuorviante agli investitori i rischi legati alla propria esposizione in Bitcoin, aggravando la questione con la recente adozione del modello di contabilizzazione fair value imposto dalle nuove linee guida FASB.
Il cuore della contesa risiede nella discrepanza tra il tenore comunicativo adottato da Strategy — che nei mesi precedenti ha reiterato una narrativa di solidità patrimoniale e visione strategica di lungo periodo — e la consistenza numerica della perdita non realizzata registrata nel primo trimestre 2025: 5,9 miliardi di dollari, secondo i bilanci depositati alla SEC. In un contesto caratterizzato da una nuova sensibilità per la disclosure finanziaria e dalla crescente istituzionalizzazione della presenza crypto nelle strutture societarie, il caso si profila come un precedente potenzialmente strutturante.
Per comprendere la portata sistemica della vicenda, occorre interrogarsi non tanto sulla posizione individuale di Strategy — che al momento della notifica legale deteneva oltre 576.000 BTC per un controvalore stimato attorno ai 36 miliardi di dollari — quanto sulla funzione simbolica che la società di Saylor ha assunto negli ultimi tre anni. Lungi dall’essere semplicemente un utilizzatore atipico di Bitcoin, Strategy ha costruito attorno alla propria politica di tesoreria una forma di monoteismo aziendale, in cui l’allocazione su BTC ha cessato di essere uno strumento per divenire una dichiarazione vera e propria sull’evoluzione dell’economia digitale.
In questa luce, la class action si configura come una tensione tra due ordini narrativi incompatibili: da un lato, l’idea che l’impresa possa operare come vehicle di una scommessa economico-finanziaria sul futuro del denaro; dall’altro, l’impianto tradizionale della governance finanziaria, secondo cui il mandato fiduciario dell’impresa verso i propri azionisti impone trasparenza, prevedibilità e gestione prudente del rischio. La questione non è, in ultima istanza, se Strategy abbia “perso” o “guadagnato” su Bitcoin, ma se abbia adeguatamente trasmesso la natura dell’azzardo implicito nella propria scelta.
Vale la pena notare che l’azione legale non arriva in un vuoto normativo: l’adozione del principio contabile fair value per la valutazione degli asset digitali, effettiva dal gennaio 2025, ha imposto alle aziende di riflettere direttamente nei propri bilanci le oscillazioni di prezzo degli asset detenuti, esponendo le società a nuove dinamiche di volatilità percepita. Mentre in passato tali oscillazioni potevano essere considerate irrilevanti finché non realizzate, ora esse impattano direttamente sugli utili trimestrali, con implicazioni non solo finanziarie ma anche reputazionali e strategiche. Da qui l’interrogativo cruciale: è compatibile una strategia di tesoreria fortemente esposta a Bitcoin con gli standard di disclosure attesi in un contesto regolato?
La risposta, al momento, resta sospesa tra visioni antagoniste. I sostenitori di Saylor argomentano che la comunicazione della strategia Bitcoin è stata ampia, reiterata e inequivocabile, tanto da costituire parte essenziale della value proposition della società . Gli investitori, in questa lettura, erano pienamente consapevoli della natura della scommessa, e nessuna informazione materiale sarebbe stata occultata. Al contrario, i promotori della class action sostengono che le modalità retoriche e la cornice espositiva utilizzata da Strategy avrebbero minimizzato i rischi strutturali, favorendo una percezione di sicurezza infondata presso il mercato retail.
Sul piano generale, l’esito della causa avrà  implicazioni che travalicano il perimetro di Strategy. Sempre più imprese — da Tesla ad aziende minori nel settore tech e mining — hanno integrato Bitcoin nei propri bilanci negli ultimi anni, spinti dalla promessa di store of value, protezione dall’inflazione, o semplice ottimizzazione della liquidità . Un pronunciamento sfavorevole potrebbe ridisegnare i criteri di rendicontazione del rischio crypto, spingendo le aziende verso formule più caute, o disincentivando del tutto l’inclusione di asset digitali in bilancio. Parallelamente, le autorità regolatorie, a partire dalla SEC, potrebbero utilizzare il precedente per rivedere gli standard di comunicazione e di compliance per le società esposte a criptovalute, in una logica di prevenzione del rischio.
Resta infine un piano più implicito, ma forse decisivo: il modo in cui il caso Strategy sarà trattato contribuirà a definire il grado di tolleranza istituzionale verso l’integrazione profonda tra finanza tradizionale e cripto-asset. Se il caso sarà inquadrato come una devianza da reprimere, l’industria riceverà un segnale dissuasivo. Se invece sarà letto come una frizione inevitabile in un processo di trasformazione, esso potrà costituire un’occasione per codificare nuove soglie di trasparenza, senza scoraggiare l’innovazione patrimoniale.
In ogni scenario, il tempo delle ambiguità sembra essersi esaurito. Il Bitcoin aziendale non è più un gioco d’avanguardia, ma un oggetto giuridico, contabile e strategico, con tutte le responsabilità che ciò comporta.