Criptovalute
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Regolamentazione

La discussione sul digital euro non è nuova: la Banca Centrale Europea ha avviato il progetto già nel 2020, lo ha portato in fase di indagine tra il 2021 e il 2023 e si appresta a concludere, entro l’ottobre 2025, la fase preparatoria. L’idea è chiara: una central bank digital currency (CBDC) in grado di affiancare il contante, garantire un’infrastruttura europea per i pagamenti digitali e ridurre la dipendenza da soluzioni private o extra-UE, in particolare dagli stablecoin globali e dalle big tech. Tuttavia, a cinque anni dall’avvio, il progetto continua a scontare un’incertezza sostanziale: nella dichiarazione resa nei giorni scorsi, il membro del Comitato esecutivo della BCE Piero Cipollone ha parlato della metà del 2029 come data “ragionevole” per un’eventuale introduzione, sottolineando però che si tratta di una stima e non di una tabella di marcia vincolante.
È un’affermazione che rivela più di quanto sembri. Non si tratta soltanto di un aggiornamento del calendario, ma di un sintomo della difficoltà strutturale che accompagna l’intero progetto. Perché se da un lato il digital euro rappresenta la traduzione concreta della volontà di rafforzare la sovranità monetaria europea, dall’altro si colloca al crocevia di tensioni politiche, resistenze tecniche e diffidenze sociali che ne rallentano la gestazione e ne minacciano la credibilità.
Il Parlamento europeo costituisce oggi il principale snodo. È qui che dovrà essere approvata la cornice legislativa necessaria per definire parametri essenziali come i limiti di detenzione, le garanzie di privacy e l’interoperabilità con il sistema bancario. Secondo Cipollone, un orientamento del Parlamento non arriverà prima del 2026, il che spiega perché la BCE non possa impegnarsi su un orizzonte temporale anteriore. Ma dietro questa lentezza si nasconde anche un problema di consenso: la proposta incontra lo scetticismo di alcuni Stati membri, la prudenza di molti deputati e le perplessità di una parte consistente dell’opinione pubblica, che teme un indebolimento della privacy finanziaria.
Il recente compromesso sui cosiddetti holding limits, vale a dire la soglia massima di digital euro detenibili da un singolo utente, mostra con chiarezza la natura ambivalente del progetto. Da un lato, l’obiettivo è evitare che masse ingenti di liquidità vengano sottratte ai depositi bancari, destabilizzando il sistema creditizio; dall’altro, l’introduzione di un tetto quantitativo riduce l’appeal della moneta digitale e la priva di quella flessibilità che ne avrebbe dovuto costituire la forza. Il rischio è di produrre uno strumento che, pur innovativo sul piano tecnico, finisca per essere percepito come una replica vincolata di ciò che già esiste.
In questo contesto si inserisce anche il quadro regolatorio europeo più ampio. Con l’entrata in vigore del MiCA (Markets in Crypto-Assets Regulation) e dei suoi recenti standard tecnici (RTS/ITS), l’Unione ha già introdotto un regime avanzato di supervisione per stablecoin e service provider. Non sorprende, dunque, che attori come Tether o i promotori di stablecoin ancorati all’euro (ad esempio EURAU, autorizzata in Germania) abbiano colto l’occasione per consolidare la propria posizione. La frammentazione normativa interna, resa evidente dalle minacce francesi di limitare il passporting delle licenze, mostra che il digital euro dovrà non solo competere con alternative private, ma anche confrontarsi con un’Europa che non è ancora unitaria nel proprio approccio.
Eppure, il rinvio al 2029 non è necessariamente un segnale di fallimento. Esistono almeno tre profili positivi che meritano attenzione. In primo luogo, il tempo guadagnato permette all’Europa di osservare le esperienze estere: il caso dello yuan digitale in Cina, caratterizzato da un tasso di adozione ancora modesto nonostante il forte impulso statale, o le incertezze statunitensi tra stablecoin regolamentati e ipotesi di dollaro digitale, offrono spunti preziosi su ciò che funziona e ciò che va evitato. In secondo luogo, la dilatazione dei tempi consente di integrare il progetto con le altre infrastrutture digitali in via di sviluppo: dall’identità digitale europea (eID) alle piattaforme di pagamento istantaneo già operative (TIPS, SEPA Instant), fino agli esperimenti sulla tokenizzazione di asset finanziari. In terzo luogo, la gradualità riduce il rischio di rigetto sociale e politico, poiché consente di costruire un consenso più ampio e di presentare il digital euro non come imposizione tecnocratica, ma come evoluzione condivisa.
Il rovescio della medaglia è evidente. Ogni rinvio espone il progetto a un crescente rischio di irrilevanza competitiva. Mentre l’Europa discute, gli stablecoin regolamentati si consolidano come strumenti di pagamento efficienti e già integrati nei mercati; altri Stati, come la Cina, gli Emirati Arabi o alcune economie latino-americane, accelerano lo sviluppo di CBDC operative. Il pericolo, in questo scenario, non è tanto che il digital euro non venga mai realizzato, quanto che arrivi troppo tardi, privo di capacità attrattiva e relegato al ruolo di prodotto burocratico, incapace di conquistare utenti e operatori.
Per la BCE, dunque, il tema non è solo tecnico, ma reputazionale: dimostrare che una CBDC europea può conciliare esigenze tra loro conflittuali — sicurezza informatica, protezione della privacy, stabilità finanziaria, usabilità quotidiana — senza scivolare né nella rigidità regolatoria né nell’irrilevanza pratica. Per gli Stati membri, la questione è politica: quanto potere monetario si è disposti a trasferire a un’infrastruttura sovranazionale che inevitabilmente ridisegnerà i rapporti con il settore bancario tradizionale? Per i cittadini, infine, la posta in gioco è la definizione di un nuovo regime di fiducia, in cui la moneta non sarà più soltanto un pezzo di carta garantito dallo Stato, ma un codice digitale regolato da architetture tecnologiche e istituzionali.
Cipollone, indicando il 2029 come data “ragionevole”, non ha fatto altro che riconoscere pubblicamente ciò che gli addetti ai lavori già sanno: il digital euro non è pronto. Se questo tempo supplementare diventerà occasione per rafforzare il progetto o ennesimo esempio di inerzia istituzionale, dipenderà dalla capacità europea di tradurre il rinvio in visione strategica e non in semplice attesa.