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BTC NELLE GRANDI BANCHE: L’ETF IBIT ENTRA NEI PRESTITI DI JPMORGAN

BTC NELLE GRANDI BANCHE: L’ETF IBIT ENTRA NEI PRESTITI DI JPMORGAN

Nel segno di una progressiva integrazione tra finanza tradizionale e asset digitali, JPMorgan, la più antica delle grandi banche americane, ha avviato un programma di collateralizzazione che accetta, tra le garanzie accettabili per la concessione di credito, le quote dell’iShares Bitcoin Trust (IBIT) — l’ETF spot su BTC gestito da BlackRock.

Si tratta, a ben vedere, di una svolta solo in apparenza tecnica, e che invece incide sullo statuto giuridico e simbolico del Bitcoin: non più mera “rappresentazione digitale di valore”, ma bene patrimoniale formalmente accettato come peg per la generazione di debito. Il dato è confermato da fonti incrociate e non appare limitato al perimetro interno di JPMorgan, ma è parte di una più ampia operazione di riqualificazione della rischiosità degli asset crypto alla luce delle dinamiche post-MiCAR e dell’orientamento emergente della SEC verso gli strumenti indicizzati fisicamente.

L’ETF IBIT, lanciato a gennaio 2024 e divenuto in meno di 18 mesi il più capitalizzato del comparto spot su BTC, ha registrato un incremento del valore delle proprie quote pari al +138% — passando da poco oltre 26 dollari a sfiorare i 63 nel mese di maggio. Parallelamente, BlackRock detiene ora oltre 295.000 BTC, corrispondenti a circa il 3,1% della circolazione attiva: un quantitativo superiore a quello detenuto da MicroStrategy e secondo soltanto all’indirizzo attribuito a Satoshi Nakamoto. È su queste basi, e non su pure speculazioni, che si fonda l’inclusione dell’ETF tra le garanzie accettabili da JPMorgan.

L’operazione si inserisce in un contesto regolatorio in fase di ridefinizione. Dopo l’approvazione degli ETF spot da parte della SEC e l’apertura dell’ESMA a prodotti analoghi nel quadro MiCAR, gli istituti di credito tradizionali iniziano a elaborare policy interne per la gestione degli strumenti digitali in chiave creditizia. L’inclusione delle quote di IBIT come asset collaterale, sebbene inizialmente limitata a prestiti marginati, rappresenta una prima integrazione funzionale delle crypto nelle prassi operative del credito, al di là dei modelli di custodia o degli investimenti diretti.

Le implicazioni sono plurime. Dal punto di vista sistemico, questa scelta potrebbe accelerare l’effetto di legittimazione del Bitcoin non solo come riserva di valore, ma come garanzia sottostante nel circuito bancario, con implicazioni dirette sui criteri di Basilea e sulla valutazione del rischio controparte. In altri termini, se l’ETF su Bitcoin viene trattato alla stregua di un asset di classe A, sarà difficile mantenere la narrativa dell’“incertezza strutturale” tipica delle valute non sovrane.

Vi è poi un tema di spillover finanziario: la possibilità di utilizzare ETF crypto come collaterale potrebbe aumentare la leva sistemica sull’asset sottostante, con rischi e opportunità. Rischi, in quanto in caso di correzione del prezzo BTC, il valore delle garanzie può crollare rapidamente; opportunità, poiché si costruisce un ponte tra la liquidità del mondo fiat e l’allocazione in BTC senza obbligare alla dismissione dell’asset stesso.

In definitiva, ciò che accade oggi con JPMorgan e IBIT è più di una nota di policy bancaria: è l’indizio concreto di un graduale avvicinamento tra infrastrutture finanziarie tradizionali e architetture crypto-native, in cui l’elemento fiduciario torna a essere modellato non su base sovrana, ma algoritmica. Non è più necessario “credere nella blockchain”: è sufficiente che il titolo che la rappresenta possa essere escusso, valutato e registrato in bilancio.